Il giudice ha deciso per gli 82 indagati all’azienda ospedaliera universitaria Ruggi d’Aragona di Salerno: il fatto non sussiste. È questa la sentenza emanata da Lucia Casale dopo anni di indagini a carico di 83 dipendenti della struttura, denunciati per assenteismo. Tale denuncia era stata presentata da un sindacalista della Ugl con l’ipotesi di accusa di concorso di persona, reato continuato e truffa. Tutte accuse dalle quali gli imputati sono stati assolti di recente in una causa che andava avanti dal lontano 2016. I presunti episodi risalivano a fine 2015, quando qualcuno riteneva si fossero verificati ben 34 giorni d’assenza consecutivi. La truffa, come ben noto, consiste nel timbrare il badge del lavoro per poi assentarsi. Anche nel 2018 ci sono state altre 33 assoluzioni, quando nessuno degli indagati era stato, di fatto, assente dal proprio posto di lavoro ma risultava esserlo a causa di un errore dell’apparecchio nel rilevare le timbrature. In un’aula gremita di avvocati, la presidente Lucia Casale ha sciolto la riserva dando ragione al collegio difensivo (penalisti Gino Bove, Anna Sassano, Francesco Saverio Dambrosio, Paolo Carbone, Genserico Miniaci, Michele Tedesco, Michele Sarno, Vincenzo Tondino, Agata Bisogno, Michela Giella e Giovanni Del Grosso) dopo che il pubblico ministero aveva avanzato alcune richieste di condanna fino a 2 anni. Ottantatré le assoluzioni: tante quanti gli imputati coinvolti in questa tranche dell’inchiesta. È morto infatti prima di ottenere giustizia e dopo aver seguito tutte le udienze – nell’ultima si era presentato sulla sedia a rotelle – il caposala e sindacalista di trincea Carmine De Chiaro licenziato nel 2015 dopo un procedimento disciplinare instaurato dall’Azienda ospedaliera. L’infermiere specializzato, originario di Mercato Sanseverino, protagonista di feroci battaglie sul posto di lavoro, si è spento sabato scorso a 64 anni dopo aver lottato con un male incurabile che, ironia della sorte, lo ha portato via appena una settimana prima dell’attesa sentenza.

Truffa ai danni dello Stato (per le quote di stipendio percepite nei momenti di assenza) e violazione della legge sul pubblico impiego, che impone tra l’altro di provvedere alla timbratura del badge in entrata e in uscita dal luogo di lavoro, erano le ipotesi di reato contestate dal pubblico ministero Francesco Rotondo a tutti i dipendenti coinvolti nel processo e smontate nel corso del dibattimento. Gli episodi di scambio di badge, contestati dalla procura, risalivano a un arco temporale compreso tra la metà di dicembre 2015 e gli inizi di marzo 2016 e per qualcuno i periodi di assenza contestati ammontavano anche a 34 giorni lavorativi. I legali degli imputati, attraverso una serie di prove orali e documentali, sono riusciti a dimostrare che la timbratura dei cartellini da parte di altri colleghi, non era prova dell’assenza ma era semplicemente dovuta ad un fattore di comodità: uno, cioè, timbrava anche per gli altri ma non si trattava di un tentativo di coprire condotte assenteistiche. La circostanza è emersa non solo attraverso l’esame dei testi ma anche grazie all’acquisizione dei dati forniti dalla piattaforma “Areas”, un sistema informatico al quale i dipendenti accedono direttamente dal reparto e che ha dimostrato la presenza sul posto di lavoro dei dipendenti nei giorni e negli orari contestati dalla Procura. Quello definito ieri è il secondo filone dell’inchiesta: resta ancora da definire l’altro fascicolo, figlio del blitz denominato “Just in time”, la cui prossima udienza è prevista il 26 ottobre. Era il 29 marzo 2017 quando il gup Piero Indinnimeo, all’esito dell’udienza preliminare, dichiarò il rinvio a giudizio degli 84 imputati fissando all’ottobre dello stesso anno l’avvio del processo. La posizione degli 84 imputati risultava meno gravata rispetto a quella dei tredici colleghi rinviati a giudizio precedentemente nell’ambito del fascicolo Just in time. Se per alcuni di quegli imputati vi erano persino filmati che li ritraevano in acquisti o passeggiate mentre dovevano essere in servizio, in questa seconda tranche dell’inchiesta le anomalie riscontrate si sono dimostrate compatibili con la versione difensiva: un mero scambio di badge, per accelerare i tempi d’ingresso e uscita dall’azienda ospedaliera, ma senza intaccare la permanenza a lavoro. 

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