di Mario De Michele

I volti dei camorristi sono molteplici come i loro affari loschi e insanguinati. La sequenza fotografica dei capi dei Casalesi arrestati mostra facce contrastanti: Francesco Bidognetti “Cicciotto ‘e mezzanotte”, finito in trappola nel ’93, appare scuro in viso e pensieroso; Francesco Schiavone “Sandokan”, nel ’98 stretto nella morsa degli uomini della Dia, ostenta fierezza; poco più di un anno fa, Antonio Iovine “O’ ninno” sfoggia, sotto una raffica di flash, un sorriso a trentadue denti, irritante e beffardo come quello di Giuseppe Setola “O’ cecato”, capo dell’ala stragista ingabbiato nel 2009; l’ultimo padrino dei Casalesi ancora latitante, Michele Zagaria “Capastorta”, ricercato da 15 anni e arrestato lo scorso 7 dicembre, sembra quasi impaurito, il volto mite e lo sguardo basso per evitare il bagliore dei click assordanti dei fotografi e dei faretti delle telecamere, puntati addosso come fucili. Sembra un pulcino accerchiato da gatti famelici Zagaria.

Eppure, è riuscito a sfuggire alla cattura per oltre tre lustri. Nel frattempo è diventato la mente finanziaria del clan. Aveva in mano l’intero settore edile dell’economia illegale. Era il presidente del Cda della “Camorra Spa”. È lui il paradigma della metamorfosi dei Casalesi. Dagli spietati Schiavone e Bidognetti, capaci di spodestare Antonio Bardellino, passando per lo scaltro Iovine, si è via via giunti all’ultimo stadio dell’evoluzione della cosca, appunto Zagaria, camorrista-imprenditore, mandante di omicidi e faccendiere. Dalla fine degli anni ottanta ad oggi, sono mutati anche il comportamento, lo stile di vita, i volti dei super boss.

Quella carrellata di visi, immortalati dai fotoreporter, è forse la dimostrazione plastica del percorso malavitoso dei Casalesi. E adesso che i capi carismatici sono in cella che direzione prenderà il clan? Secondo Raffaele Cantone l’assetto piramidale si sgretolerà: all’organizzazione granitica e articolata, capace di gestire come una holding affari milionari, seguirà una strutturazione territoriale della camorra casertana simile a quella napoletana. Cosche cittadine poco raccordate tra loro e guidate da boss giovanissimi. Ventenni bramosi di soldi. Ammaliati dal fascino perverso del potere criminale. Cocainomani incalliti. Dal grilletto facile. E pronti a tutto. Anche a uccidere per lo sguardo insistente di un ignaro passante. Avrà visto giusto Cantone? I Casalesi sono stati definitivamente sconfitti? E’ ancora presto per dirlo.

Che prima o poi sarebbero stati incastrati lo avranno capito innanzitutto i quattro dell’Apocalisse alla testa del clan. Possibile che, prima Cicciotto ‘e mezzanotte e Sandokan, e poi O’ ninno e Capastorta, non avessero già preparato la loro successione? O quanto meno non fosse stata programmata una staffetta tra chi finiva in carcere e chi restava fuori? Ipotesi inquietanti che già a breve potrebbero avere riscontri. Se la pax camorristica garantita dalla “Cupola” sarà infranta a colpi di pistola e omicidi, allora è probabile che la nuova stagione malavitosa vedrà sulla scena del crimine un branco di cani sciolti. In caso contrario, si profilerebbe una fase di attesa e riorganizzazione. Una sorta di ritirata strategica.

Per ora una cosa è certa: lo Stato ha segnato un punto importantissimo a suo favore. Ha dimostrato che la guerra contro le mafie può essere vinta. Che una società libera dalle catene della criminalità organizzata è possibile. Nella lotta ai Casalesi, è giusto rimarcarlo, l’impulso politico impresso dall’ex ministro dell’Interno Maroni si è rivelato decisivo. Come sempre però i match-winner sono stati gli inquirenti: magistrati, poliziotti, carabinieri, finanzieri, che negli ultimi vent’anni hanno dato anima e corpo – e in qualche caso anche la vita – nel tentativo di sradicare un cancro le cui metastasi hanno valicato i confini nazionali. Soprattutto a loro spetta il merito di aver ridato speranza a un territorio, l’agro aversano e il Casertano, che sembrava irrimediabilmente destinato a morire soffocato nella morsa dei Casalesi.

Come già detto è ancora presto per cantare vittoria. E la strada da fare per relegare le mafie nelle pagine buie della nostra storia è molto lunga e lastricata da insidie. Ma il segnale di una svolta c’è stato, eccome. Ora bisogna aprire una fase nuova anche nella disamina sociale, economica, culturale e politica. Il riscatto del territorio non passa solo attraverso l’indispensabile attività preventiva e repressiva delle forze dell’ordine.

Con la cattura di Zagaria è scoccata l’ora di ripensare alla provincia di Caserta, e in particolare all’Aversano. Continuare a gettare il bambino con l’acqua sporca significherebbe prestare il fianco alla criminalità, nuova o vecchia che sia. Se negli anni i volti dei superlatitanti, uno via l’altro ammanettati, sono mutati, così come è cambiata l’immagine della camorra, che ha smesso la coppola per indossare gli abiti chic dell’imprenditoria criminale, purtroppo resiste ancora il luogo comune per cui in terra di Gomorra tutti o quasi sono camorristi o se va bene legati o vicini ai camorristi. E se non sono più o meno organici ai clan, sicuramente hanno – tutti gli abitanti di Gomorra – almeno la mentalità camorristica.

Una generalizzazione, alimentata dalla vulgata giornalistica e da un fin troppo nutrito filone letterario, che fa torto alle tante – la stragrande maggioranza – persone perbene che da decenni si ritrovano tra l’incudine della criminalizzazione culturale e sociale, e il martello della malavita organizzata.

Le cronache dell’arresto di Zagaria sono lì a confermarlo. All’indomani della cattura fiumi di inchiostro e filmati interminabili hanno catapultato i cittadini di Casapesenna nel tritacarne mediatico. Interviste video di giovani filo-Zagaria, articoli coloriti sull’atteggiamento omertoso della gente (tutta), il parroco-don Abbondio che pensa ai fatti suoi, la politica che sempre e comunque va a braccetto con la criminalità. Insomma, a Casapesenna e nell’agro aversano sono tutti camorristi.

Dire che in terra di Gomorra sono tutti uguali cagiona un doppio irreparabile danno. Il primo: sostenere che sono tutti camorristi è come dire che nessuno è camorrista, ovvero non distinguere tra bene e male significa favorire la penetrazione dei clan nella società civile, per dirla con Hegel di “notte tutte le vacche sono grigie”.

La seconda conseguenza perniciosa derivante dalla propensione a gettare il bambino con l’acqua sporca – forse ancor più grave della prima – si riflette sul piano socio-politico e su quello culturale e civile: se tutto è marcio, è inutile impegnarsi per la rinascita del territorio; se non c’è alternativa alla camorra, non serve combatterla; se la mentalità mafiosa è così radicata e diffusa, non c’è possibilità di cambiarla. Peggio ancora se la generalizzazione riguarda la politica e le amministrazioni locali.

Chi legge faccia questo semplice ragionamento: se il sindaco di un paese della zona aversana opera in modo onesto e nell’interesse esclusivo della collettività, e ciò nonostante viene additato come persona in odore di camorra, cosa ne deriva? Ecco: le persone perbene abbandoneranno la politica, a vantaggio dei farabutti pronti a scendere a patti con i clan. Guai allora a raffigurare terra di Gomorra solo come terra di camorra.

Da molti anni in queste aree martoriate, anche per il degrado ambientale e socio-economico, sono spuntate oasi felici come il Comitato don Peppe Diana, in memoria del prete ucciso dai Casalesi, il consorzio Agrorinasce, impegnato nel riuso sociale dei beni confiscati ai boss, associazioni di giovani, donne, anziani in prima linea per il risorgimento del territorio, e tanti, tantissimi amministratori onesti, che sprezzanti del pericolo hanno lavorato per il bene dei loro comuni.

Se si continua a dire che tutte le vacche sono grigie si fa il gioco delle cosche, se si confonde lo Stato con l’antiStato non si uscirà mai dalle sabbie mobili e insanguinate della criminalità, se si fa di tutta l’erba un fascio si darà forza ai Casalesi o a chi per loro. Ora che i capi indiscussi della camorra casertana sono in gabbia – ed essendo bestie è lì che devono restare a vita – bisogna cogliere l’occasione, forse irripetibile, per cercare di voltare veramente pagina. Chiudiamo l’epoca dei professionisti dell’antimafia e del savianesimo e apriamo la stagione del riscatto.

Felice quel paese, che non ha bisogno di eroi.

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