di Mario De Michele

Che l’Italia avesse bisogno di una cura da cavallo per porre un argine allo straripante debito pubblico e all’attacco speculativo condotto contro i titoli di Stato non è in discussione. Che il governo fosse costretto a correre ai ripari per mettere in sicurezza l’edificio finanziario del Paese, neanche. Come c’è poco da obiettare che i soggetti sociali, sindacati e imprese, dovessero fare la loro parte per evitare il default e il conseguente sgretolamento del sistema economico italiano.

Sul “che fare”, insomma, siamo tutti d’accordo. Proprio tutti. Ma nella girandola di appelli, sos, invocazioni, pressioni – della Bce in testa – sul fare, e subito, qualcosa di concreto si è via via perso di vista il “come” farlo. E soprattutto a spese di chi. Da quando il suono minaccioso delle sirene ha preannunciato l’incombere dei bombardamenti sul nostro fragile tessuto economico-finanziario, si è fatta strada la parola d’ordine della drastica riduzione della spesa pubblica. Il governo ha dispiegato la contraerea dei tagli orizzontali, per usare una definizione cara al ministro Tremonti.

E qui veniamo al “come” salvare l’Italia dalla bancarotta. E soprattutto a chi deve pagare il prezzo più alto del risanamento. Tagliare la spesa pubblica, assottigliare lo stato sociale, ridurre gli stanziamenti a regioni ed enti locali, accanirsi sul mondo del lavoro significa colpire le fasce più deboli. E sia chiaro: non per una scelta obbligata ma per una precisa volontà politica. Lasciamo perdere per un attimo la diatriba fuorviante sui conti che non tornano e su quante risorse occorrono per allontanare il Paese dal baratro del fallimento. La matematica non è un’opinione, per cui prima o poi i numeri avranno la meglio sulle beghe politiche.

Oggi che la manovra-bis ha assunto contorni piuttosto nitidi i riflettori del dibattito vanno spostati sui contenuti dei provvedimenti proposti dal centrodestra. Qual è la ricetta del governo? “Come” intende uscire dalla crisi? Cerchiamo di capirci qualcosa, almeno l’essenziale.

Partiamo dalle detrazioni fiscali. Secondo uno studio effettuato dalle Acli, il taglio alle detrazioni fiscali farà segnare un -350 euro a persona, all’incirca 1500-2000 euro a famiglia. E per detrazioni fiscali si intendono, per fare qualche semplice esempio, quelle per le spese sanitarie, per le tasse universitarie e per i mutui. Si dirà: quando c’è da stringere la cinghia è giusto che tutti facciano dei sacrifici. Perfetto. Senonché coloro i quali si riempiono la bocca di queste parole pregne di responsabilità istituzionale e senso dello Stato sono gli stessi che hanno deciso – nella manovra-bis – di aumentare l’Iva di un punto: dal 20 al 21%, con maggiori entrate per lo Stato che si aggirano tra i 4 e i miliardi all’anno.

Ma che si cela dietro l’acronimo Iva? E’ l’imposta sul valore aggiunto. Colpisce solo l’incremento di valore che un bene o un servizio acquista ad ogni passaggio economico (valore aggiunto), a partire dalla produzione fino ad arrivare al consumo del bene o del servizio stesso. Attraverso un sistema di detrazione e addebito) l’imposta grava completamente sul consumatore finale (che non è quello che intende Ghedini nel caso escort) mentre per il soggetto passivo d’imposta – l’imprenditore e il lavoratore autonomo – rimane neutrale. Per imprenditori e professionisti, in sostanza, non cambia nulla, per i consumatori – noialtri – ci sarà una mini-stangata sui prezzi di prodotti come abbigliamento, calzature, auto, moto, televisori, giocattoli, detersivi, vacanze, e anche caffè e cioccolata e vino, senza dimenticare le bollette elettriche. Una stima del Codacons calcola un rincaro di quasi 500 euro a famiglia.

Restando nel campo del Fisco – centrale nella nuova finanziaria, fino alla prossima, ennesima, piroetta della maggioranza – scopriamo inoltre che i proclami sulla lotta all’evasione sbattono il muso contro l’assenza di misure strutturali: dall’incrocio tra le banche dati, alla tracciabilità, all’uso della moneta elettronica per i professionisti, alle risorse per i controlli ispettivi.

Nel pacchetto-paccotto governativo c’è anche la norma che prevede il carcere per chi evade per più di 3 milioni di euro. Bene, benissimo. Ma senza controlli come saranno scovati i mega-evasori? Tra di loro già circola voce che con l’entrata in vigore della manovra potranno evadere solo fino a 2.999.000 euro. Poveretti. Per i più sfortunati c’è comunque sempre pronto lo scudo fiscale per ridare ai ricchi i capitali che i ricchi avevano dirottato illegalmente all’estero.

Passiamo ai tanto propagandati tagli ai costi della politica. A chiacchiere sarà approvata – ovviamente in un futuro imprecisato – la riforma per il dimezzamento del numero dei parlamentari, per ora invece sono state cancellate le norme che prevedevano la soppressione delle province con meno di 300mila abitanti e dei piccoli comuni; enti che nel giro di poche ore sono diventati prima utili, poi inutili, per tornare infine di nuovo utili (ai politici). Salvi anche i mini-enti: non saranno più soppressi gli enti pubblici non economici con meno di 70 dipendenti.

Il meglio di sé il governo l’ha dato sui provvedimenti per rilanciare lo sviluppo e creare posti di lavoro. Eccone un esempio emblematico. Lo descriviamo prima in politichese: i contratti di lavoro aziendali o territoriali operano anche in deroga alle leggi (vale anche per l’articolo 18) e ai contratti collettivi nazionali. L’accordo interconfederale del 28 giugno viene recepito in manovra.

In parole povere, anche le imprese con più di 15 dipendenti potranno licenziare senza giusta causa, derogando all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Un attacco al mondo del lavoro? Macché, è un modo per favorire la flessibilità e offrire ai giovani maggiori occasioni lavorative. Se non fosse che le stime degli ultimi anni segnalano un crescente aumento della disoccupazione, in particolare al sud dove un giovane su tre non trova lavoro, e chi ha più di 30 anni non lo cerca nemmeno più, talmente è diventato una chimera.

Per non parlare – anzi parliamone – dei 187 tavoli di crisi ancora aperti al ministero dello Sviluppo economico, dei 225mila lavoratori il cui futuro occupazionale è in bilico da oltre due anni, e dei 500mila dipendenti in cassa integrazione, dei quali  380mila in cassa straordinaria e in deroga. In un Paese in cui lo sport nazionale non è più il calcio ma il licenziamento, il governo ha avuto la geniale idea di rendere ancora più facile per le imprese cacciare i lavoratori. Per essere precisi, cacciarli senza giusta causa.

Ecco, sono questi i conti che non tornano. Anzi tornano perché a pagare sono i più deboli. Ancora una volta lo Stato toglie ai poveri per dare ai ricchi. Anche per questo crediamo che sia giusta, legittima, se non obbligata, la decisione della Cgil di proclamare per oggi lo sciopero generale. “Indignarsi non basta”, va dicendo da tempo Pietro Ingrao. Bisogna creare un ampio blocco sociale per opporsi a una classe dirigente asserragliata nel palazzo del potere e sempre più “disconnessa sentimentalmente” con il popolo. E scendere in piazza è già qualcosa.

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