di Mario De Michele

Prima le dimissioni da “capo” della Lega. Poi le dichiarazioni di principio: “Chi ha sbagliato deve pagare, e se mio figlio ha sbagliato è giusto che paghi”. La diversità della Lega risiede nei gesti e nelle parole di Umberto Bossi. All’indomani della burrasca che ha fatto schiantare il Carroccio contro gli scogli della magistratura,

il Senatur si è fatto da parte assumendosi tutte le responsabilità di uno scandalo che scriverà un nuovo corposo capitolo della storia politica italiana. Il “lider maximo” dei leghisti, condottiero indiscusso e indiscutibile per circa un ventennio, ha gettato la spugna sotto i colpi di un’inchiesta che riguarda in primis la sua famiglia, il figlio Renzo in testa. Lo ha fatto a modo suo, senza discutere troppo e senza ascoltare consigli. Da vero leader. Da “dominus” di un partito che d’ora in poi cambierà pelle e dovrà imparare a camminare sulle proprie gambe senza essere portato per mano dal “padre-padrone”.

È finita un’era: il bossismo. Non sempre i figli sono in grado di seguire le orme dei genitori, soprattutto quando sono personaggi ingombranti come il Senatur. E l’insipienza del “Trota” era apparsa lampante ben prima della bufera giudiziaria che ha travolto lui stesso e a cascata il papà. Renzo sarebbe vissuto sempre all’ombra del genitore. E forse anche per questo avrà cercato (in che modo è ancora tutto da stabilire) di capitalizzare al massimo la sua posizione di erede al trono.

Ma il delfino-trota è annegato in acque troppo alte per lui in grado di nuotare solo a riva e con il salvagente di famiglia. A lasciarlo affogare è stato proprio il padre. Che a differenza dei tanti pifferai della politica non gli ha lanciato ancore di salvataggio. Né ha cercato di restare aggrappato al timone di una barca che le onde della magistratura dirigevano verso i flutti dello scandalo.

Bossi non è Di Pietro. E lo ha dimostrato. A gesti, non solo a parole. Quando il figlio “bamboccione” del Tonino nazionale fu coinvolto in un’inchiesta della procura di Napoli, il papà se la cavò con qualche sceneggiata mediatica (la promessa di uno scappellotto al figlio imprudente) e niente più. Bossi non è Di Pietro, soprattutto perché con l’avvento di Monti ha condotto fino in fondo una vera battaglia – condivisibile o meno – contro il governo tecnico, senza se e senza ma. E chissà se il piccone della giustizia(?) si sia abbattuto proprio ora sulle vele del Carroccio, spingendolo alla deriva, anche per le posizioni eretiche nei confronti dei santoni della Bocconi.

Il Senatur era un vero intralcio al nuovo “ordine precostituito”, molto più dell’ex pm di “Mani pulite”, tutte parole e pochi fatti. Parlando alla pancia dei “padani”, Bossi era una spina nel fianco del governo dei professori e delle lobby (banche, assicurazioni, Corriere della Sera, Confindustria). E mentre Pd, Pdl, Udc-Terzo Polo si sono genuflessi e messi a pecorina di fronte a Monti e ai suoi professori, il segretario della Lega è scesO dalla cattedra per mischiarsi a una scolaresca sempre più insofferente per le scelte antipopolari di un governo contabile.

Chi scrive è antileghista fino alle ossa. Ma di fronte a una politica commissariata dalla Bce e dal Fondo monetario internazionale, e all’indomani dei gesti e delle parole del Senatur, mi sento di dire e di scrivere: “Evviva Bossi, evviva la Lega”.

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