di Vincenzo Viglione Lungi da me la volontà di andare controcorrente e/o mancare di rispetto, ma quando leggi di un ragazzo che viene definito eroe per il “merito” di essere stato ucciso in maniera del tutto assurda con un colpo di pistola alla schiena mentre si reca allo stadio per una partita di calcio, la riflessione è d’obbligo.

Chi per tanti anni è stato frequentatore di stadi, infatti, guidato dalla passione per il calcio e per la propria squadra del cuore, sa benissimo che il percorso che si fa da casa verso il fischio d’inizio della partita, l’emozione di seguire i propri undici minuto per minuto e in ogni angolo del campo, la felicità/delusione del post partita, e il rientro commentando ciò che è stata quella giornata, sono elementi di un rituale che dovrebbe rispondere solo alla passione e alla spensieratezza di una giornata vissuta senza preoccupazioni. Nel nostro campionato invece accade qualcosa di strano.

Nel campionato che troppo spesso, a torto, è stato definito il più bello del mondo accade infatti che quando arrivi sul piazzale antistante le curve, la prima cosa che incontri non sono i sorrisi e la gioia della fiumana ch vuole divertirsi, ma le facce tese dei cordoni di polizia in assetto antisommossa impegnati a separare i flussi di tifosi per evitare scontri.

Accade che all’ingresso dopo i controlli da check-in aeroportuale ti ritrovi a dover togliere il tappo alle bottigliette di plastica per evitare che qualche “simpatico” energumeno la trasformi nel grave da lanciare all’indirizzo del guardalinee o di qualche calciatore della squadra avversaria, ma se riesci a beccare l’arbitro poi…manco la beatificazione in piazza San Pietro.

Accade che dopo una sconfitta, magari pure meritata, la cosa più semplice da affrontare all’uscita dallo stadio non è la disamina della partita, come si potrebbe pensare, ma il formicaio di gente in corsa impegnata a superare indenne la densa coltre di gas lacrimogeni misti a fumogeni dalla quale emerge il suono assordante di antifurti impazziti delle auto in sosta coperto a tratti dallo scoppio di petardi e bombe carta.

Insomma, una sequenza di immagini che sistemata in cosiddetti film denuncia risulta troppo spesso buona solo per lo spettatore tifoso che poi si incazza nei confronti del poliziotto esaltato, o viceversa, quando l’esaltato non è il tifoso in quanto tale, ma il criminale armato di spranga e catene che con lo sport non ha assolutamente niente a che vedere.

Una condizione insomma, quella del nostro campionato, che dal nord al sud del Paese negli anni ha raccontato di morti come quella di Vincenzo Spagnolo e Filippo Raciti, e che ha costretto lo Stato a predisporre misure “speciali” come i cosiddetti Daspo, le tessere del tifoso, i tornelli, il servizio d’ordine potenziato, gli orari delle partite ad hoc per questione di ordine pubblico.

Condizione che forse dovrebbe far prendere in seria considerazione l’idea di fermare una volta per tutte il carrozzone milionario dei diritti tv, degli sponsor e quant’altro per costringere tutti a una riflessione attenta su ciò che è lo sport e l’uso che criminalità organizzata o comune ne hanno fatto in questi anni, senza tirare in mezzo la patetica ipocrisia del “non possiamo darla vinta a quattro delinquenti”.

Condizione che parla di un mix letale di violenza e stupidità del tutto gratuite che la sera del 3 maggio scorso ha fatto la sua ennesima vittima. Una vittima che in maniera molto pericolosa qualcuno, più o meno ingenuamente, vorrebbe trasformare nel vessillo eroico da agitare al prossimo scontro stagionale che invece di bloccare l’effetto domino può solo rilanciarlo.

Ciao Ciro, che la terra ti sia lieve!

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